Nati e abbandonati: mostra

Archivio di Stato di Piacenza, Palazzo Farnese, Piazza Cittadella 29 – 8 maggio 2010.

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L’Archivio di Stato di Piacenza, dopo Piacenza in tasca: Itinerari insoliti nella città medioevale presentato lo scorso 21 aprile, nella sua intensa attività didattica con le scuole presenta un altro laboratorio inserito nel suo Piano per l’Offerta Formativa sostenuto dalla Provincia e dal Comune di Piacenza.

I risultati sono condensati in una mostra, realizzata in collaborazione con i Licei Respighi e Gioia di Piacenza, che testimonia storia e storie dei bambini del Brefotrofio annesso all’Ospedale Civile di Piacenza. Sono presentati i risultati delle ricerche di storia quantitativa (Quanti? Quali? Dove?) e del laboratorio di scrittura creativa svolti da un gruppo di studenti dei Licei Respighi (I L Scientifico, docenti Chiara Solinas, Patrizia Datilini ed Emanuela Sindaco) e Gioia (I A Scientifico, docente Elisabetta Peruzzi), nonché esempi dei registri e dei segni di riconoscimento dei bambini abbandonati durante il periodo napoleonico. Lascio ovviamente a loro, e alla curatrice Anna Riva, l’illustrazione dei risultati, e faccio alcune considerazioni di ordine generale anche a seguito della partecipazione al seminario sull’argomento (Troppe storie in archivio?) svoltosi all’Archivio di Stato di Milano il 16 aprile u.s.

A Milano è risuonata la definizione di “mercato” attribuita alla scuola. Mercato per gli istituti culturali che, sempre di più, negli ultimi anni si sono dedicati ad attrarre scolaresche e insegnanti ampliando così il bacino dei propri utenti o fruitori. Si tratta senz’altro di un brutto termine che però contraddistingue uno degli obbiettivi principali che alle istituzioni culturali è stato assegnato per mandato politico- amministrativo. Sembra giusto riflettere sulla sostanza e sui risvolti di questo fenomeno. Direi che in primo luogo occorre valutare, in modo obbiettivo, la reale ricaduta delle iniziative svolte con e a favore delle scuole di ogni ordine e grado, come si diceva una volta. Valutare quindi, per non limitarsi ai numeri e per non perdere di vista lo scopo essenziale dell’attività didattica che non deve mirare, come purtroppo si fa, a guadagnarsi statistiche sempre in crescita ma a mettere in pratica principi formativi a favore di tutti. Fare didattica e puntare all’eccellenza significa disporre di risorse umane e finanziarie. Senza di queste, e senza una loro continuità, non si combina niente. Ma significa anzitutto saper elaborare compiutamente un progetto secondo i suoi canonici caratteri: obbiettivi; modalità; risorse; costi; tempi.

Cosa importa di più nel fare didattica: il numero degli utenti o fruitori o clienti, il materiale prodotto; le varie e diverse fonti valorizzate o scoperte? Mi pare ovvio che si debba rispondere…un po’ di tutto questo, con l’aggiunta fondamentale che è altrettanto importante rilevare e apprezzare le esperienze e le relazioni che si rendono manifeste durante l’esercizio didattico. Nel mondo degli archivi, anche a causa della sua particolarità, diventa saliente proprio il rapporto fra l’archivista e gli insegnanti, fra l’archivista e gli studenti. In effetti, soprattutto nel contatto delle fonti documentarie originali, la posizione di docenti e ragazzi non deve e non può essere passiva; se questi ultimi non sono mossi da una curiosità personale ed operosa tutta l’attività manca di efficacia. Come si può raggiungere l’obbiettivo ambizioso di superare una sterile presa d’atto, quella di una lezione più o meno noiosa trasferita in un archivio? Spetta all’archivista la concreta risposta. Egli, mettendosi in gioco in prima persona, deve allargare un po’ il suo punto di vista, e persino le sue competenze, portare i suoi specifici saperi e la sua passione al servizio del confronto con gli studenti.

La ricerca del contatto con il mondo scolastico e del suo gradimento contribuisce a prendere in considerazione materiali diversi, documenti diversi anche dal solito supporto cartaceo: documenti iconici, visivi e sonori (audio-visivi). E non può sfuggire che si può benissimo far leva sui cd. elementi “estrinseci” delle fonti documentarie, elementi che nei profani destano indubbio interesse ed agevolano la trasmissione di quelli “intrinseci”, cioè del contenuto. Gli archivi posseggono un asso nella manica, spendibile nell’odierna ribalta che insiste, pure eccessivamente, sull’aspetto identitario della cultura e della società: è un luogo di e della memoria. Memoria del territorio e giovani generazioni è in definitiva la relazione di base da assumere, facendone una relazione critica e aperta al contesto generale.

C’è un’altra considerazione da fare, legata ai repentini cambiamenti a cui è soggetta la scuola. Oggi, ce ne accorgiamo già nell’attività didattica compaiono importanti aspetti di criticità dovuti soprattutto alla diminuzione degli orari scolastici, del numero degli insegnanti e delle loro compresenze. Le classi hanno meno tempo da dedicare ad attività straordinarie e alle uscite, ne avranno sempre meno così come gli insegnanti probabilmente avranno meno tempo e voglia di mettersi in gioco. A questo punto si pone il problema di, se si vuole, modificare l’approccio alla didattica e la sua elaborazione progettuale. Si potrebbe ad esempio pensare (anche se so che è un rischio, da rendere assolutamente calcolato) all’esportazione di determinati laboratori fuori dall’Archivio, attraverso l’adozione addirittura, come è successo nelle biblioteche, di appositi kit. Il problema maggiore e ostativo è, si rifletta, la sparizione o la latitanza dei documenti originali e della loro collocazione archivistica ed ambientale. A questo punto urge individuare una credibile soluzione di compromesso.

Gian Paolo Bulla – AS Piacenza


Ultimo aggiornamento

31 Gennaio 2024, 10:35